cop-21Sono passati poco più di due mesi dalla conclusione della COP 21 di Parigi, un evento ritenuto fondamentale per le sorti del nostro (unico) pianeta, ma che cosa è stato detto? Quali risultati sono stati raggiunti?

I media locali non ne hanno parlato molto, e non poteva essere altrimenti, considerato che l’attacco terroristico di Parigi che ha scosso il mondo intero era avvenuto poche settimane prima.

Allora abbiamo cercato di sintetizzare le opinioni di alcuni nostri connazionali, esperti su questo tema, che hanno seguito in prima persona la Conferenza.

Non è chiaro se la COP 21 sia stata un successo o un insuccesso, qualcuno l’ha definita una grande occasione persa (perché l’accordo non è vincolante e i risultati ottenuto non convincenti) e allo stesso tempo un risultati insperato (rispetto a Copenaghen 2009). I commentatori sono tutti concordi nel definire che il mancato raggiungimento di un accordo sarebbe stato un disastro e avrebbe seriamente messo in crisi il prosieguo delle trattative sul clima.

Il Paris Outcome è stato votato in seduta plenaria dai 195 membri della COP e avrà valore dal 2021, fino al 2020 è in vigore il Protocollo di Kyoto.

Gli elementi principali presenti nel testo approvato sono:

  • l’obiettivo di fermare il riscaldamento “ben al di sotto dei 2 °C dai livelli preindustriali ma anche la volontà di contenerlo entro gli 1,5 °C;
  • gli impegni nazionali saranno rivisti ogni 5 anni, ma solo per renderli più ambiziosi;
  • sempre ogni 5 anni si farà il punto sui progressi fatti;
  • si rafforza il meccanismo Loss & Damage, cioè le compensazioni economiche per aiutare i Paesi in via di sviluppo in mitigazione e adattamento: i 100 miliardi di dollari all’anno saranno solo una base di partenza.

Nonostante Laurent Fabius, ministro degli esteri francese, abbia dichiarato che gli accordi sono vincolanti, dal testo finale questo non emerge, anzi, l’impegno dei singoli Stati (quello previsto nei loro INDCs – Intended Nationally Determined Contributions ossia gli obbiettivi volontari dei singoli paesi in materia di riduzione della CO2 presentati) è volontario e dovrà solo essere trascritto sui registri pubblici internazionali accessibili alla comunità mondiale.

Inoltre ogni stato membro potrebbe, entro i prossimi 5 anni, svincolarsi dagli accordi presi. Infatti, sarà una commissione di esperti, che si riunirà nel 2020 in occasione della prima sessione dall’accordo, a definire un sistema di compliance.

Gli INDCs sono già stati giudicati insufficienti da una parte della comunità scientifica poiché porterebbero a un innalzamento di temperatura di 2,7°C, ragione per la quale se a oggi è legittimo mettere in dubbio il target dei 2°C quello dei 1,5°C diventa un vero e proprio specchietto per le allodole. Alcuni commentatori definiscono l’obiettivo 1,5°C un’abile operazione di marketing climatico, per offrire una narrazione all’opinione pubblica mondiale positiva e d’attenzione rispetto alle questioni climatiche senza intaccare per nulla gli scenari economici ed energetici odierni e anche per i prossimi decenni.

A proposito del primo punto (obiettivo 1,5°C) il climatologo Sergio Castellari (Centro Euro Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici) è piuttosto scettico, infatti, avrebbe preferito un obiettivo chiaro, con dei numeri precisi sulle riduzioni dei gas serra, e non un obiettivo di lungo termine sul contenimento delle temperature. L’obiettivo sul taglio delle emissioni, che era presente in una bozza precedente, è stato poi stralciato: citando le raccomandazioni dell’ultimo rapporto dell’IPCC, si proponeva di ridurre le emissioni del 40-70% rispetto ai livelli del 2010 entro il 2050. Il testo approvato a Parigi parla solo di mantenere l’aumento della temperatura “ben al di sotto” dei 2 °C, cercando di non superare gli 1,5 °C, e di arrivare ad avere un bilancio di emissioni pari a zero nella seconda metà di questo secolo. Inoltre non è stato chiarito come dovrebbe funzionare il meccanismo di sostegno ai paesi in via di sviluppo. Tuttavia, lo stesso Castellari vede anche aspetti positivi, infatti lo definisce un accordo storico perché per la prima volta è globale, coinvolge anche i Paesi che emettono di più. Adesso la quota maggiore di emissioni climalteranti è dovuta ai Paesi in via di sviluppo, che comprendono la Cina, la più grande emettitrice. Se nel periodo di sottoscrizione, tra aprile del 2016 e aprile 2017, la maggior parte dei Paesi firmeranno l’accordo – in particolare i principali responsabili delle emissioni di CO2 come Cina, Usa, Europa e India – sarà un grande successo, un superamento del protocollo di Kyoto. Inoltre il testo dell’accordo presuppone dei miglioramenti nel tempo: un valore positivo tenendo conto delle difficoltà che i negoziati hanno incontrato negli ultimi 3 anni.

Il “successo” di aver raggiunto un accordo è dovuto all’High Ambition Coalition, una coalizione di oltre 100 Paesi, formatasi in segreto, che ha portato la sua posizione alla COP 21 di Parigi perché si raggiunga un accordo severo in materia di cambiamenti climatici. Al suo interno si contano UE, USA e 79 paesi caraibici, africani, e dell’area del Pacifico. I principali Paesi in via di sviluppo, la Cina e l’India non facevano parte di questa coalizione. Il Brasile, per anni parte del blocco dei Paesi in via di sviluppo, si è aggiunto all’high ambition coalition. Questa Coalizione ha fatto massa critica per arrivare a definire alcuni aspetti, quali:

– raggiungere un accordo che sia legalmente vincolante;

– fissare un obiettivo di lungo termine sul surriscaldamento globale che sia in linea con i consigli degli scienziati;

– introdurre un meccanismo di monitoraggio e revisione degli impegni presi dai singoli Paesi sulla riduzione delle emissioni ogni 5 anni;

– creare un sistema unico per tracciare i progressi nel raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione.

Lorenzo Ciccarese, ricercatore dell’ISPRA ed esperto di negoziati sul clima, vede il bicchiere sia mezzo pieno che mezzo vuoto. Secondo lui, il testo finale poteva essere meglio ma va dato merito alla presidenza francese che è riuscita in questo difficile tentativo di accomodare le richieste e le aspettative della Cina e della Russia e dei principali Paesi produttori di petrolio. Inoltre, afferma che era difficile ritenere che si potesse andare oltre questo impegno. È ovvio che le promesse di riduzione dei gas serra che i Paesi hanno messo sul tavolo di Parigi cadrà ben al di sotto dell’obiettivo 2 °C. Per limitare il riscaldamento globale a +1,5 °C c’è bisogno di profonde e rapide riduzioni delle emissioni di CO2, che passano attraverso politiche aggressive, incluso l’aumento dei prezzi dell’energia da fonti fossili, per accelerare investimenti in tecnologie pulite e per disporre di fondi a favore dell’innovazione tecnologica. Il testo evidenzia che i tagli alle emissioni promessi dai paesi non sono ancora sufficienti. Tuttavia l’accordo, nel suo complesso, invia un messaggio forte a imprese, investitori e cittadini: i combustibili fossili appartengono al passato, mentre per il futuro l’energia potrà essere solo rinnovabile e pulita. Infine, riconosce il nesso tra climate change e sicurezza alimentare e l’urgenza di affrontare la fame e la malnutrizione.

Il dibattito è stato molto acceso tra gli addetti ai lavori, ma i media classici lo hanno quasi snobbato (a differenza di twitter), e si possono trovare punti di vista opposti anche all’interno di una rivista importante come Qualenergia:

Gianni Silvestrini, ricercatore del CNR, direttore del Kyoto Club e direttore scientifico di Qualenergia è ottimista:

“La lotta per il clima ha visto una serie di passaggi, alcuni più importanti come nel caso delle conferenze di Kyoto e di Parigi, altri deludenti. Ma tutti si collocano in un percorso progressivamente più ambizioso. Certo, parliamo di un’evoluzione drammaticamente lenta rispetto alla minaccia che incombe, ma le evoluzioni sono condizionate dai rapporti di forza esistenti a livello mondiale. Questi però si stanno modificando, con gli interessi dei combustibili fossili sempre più in difficoltà. Peraltro, i cambiamenti non sono lineari ma subiscono forti accelerazioni e i prossimi appuntamenti consentiranno di alzare notevolmente l’asticella degli obiettivi.”

“L’introduzione dell’indicazione della soglia di 1,5 °C e dell’obiettivo di arrivare nella seconda parte del secolo ad un bilanciamento tra emissioni e accumulo di CO2 (un elemento quest’ultimo che potrà valorizzare l’arricchimento di carbonio nei suoli) indicano un percorso a cui inchiodare d’ora in poi i singoli governi. Ad iniziare dal nostro. C’è infatti un’evidente scollamento tra questi obiettivi e la maggior parte delle politiche al momento avviate. E il raggiungimento di un accordo con tutti i paesi del pianeta rappresenta un potente strumento per chiedere un cambio di passo.”

“Dall’esito della COP21 viene poi un colpo molto duro ai combustibili fossili, destinati sostanzialmente a sparire in poco più di un cinquantennio. La credibilità degli investimenti in questo settore calerà e l’immagine delle multinazionali del settore verrà minata se non cambieranno rapidamente strategie, mentre il movimento “Divest fossil” acquisirà forza e credibilità. Centinaia di miliardi di dollari cambieranno destinazione a favore delle rinnovabili, dell’efficienza, della mobilità elettrica. Un nuovo contesto che consentirà di contenere le tensioni internazionali e di ridurre le diseguaglianze.”

Sergio Ferraris, giornalista scientifico e direttore responsabile di Qualenergia, è invece molto critico:

“Fate attenzione. Nella seconda metà del secolo si potranno utilizzare, secondo l’accordo, fonti fossili ma si dovrà sequestrare nel frattempo la CO2. Una bella differenza rispetto all’utilizzo dal 2050 del 100% di fonti rinnovabili che del resto sono citate una sola volta come ausilio per l’accesso all’energia per l’Africa, mentre carbone, petrolio e fossili non sono proprio nominati”

“È necessario analizzare i contesti esterni alla COP21. Venerdì 4 dicembre, due giorni prima del round decisivo del vertice parigino, l’Opec ha deciso di non diminuire la produzione petrolifera con il risultato di aver fatto sprofondare il prezzo del barile a 38 dollari, dando un segnale chiaro circa il fatto che il petrolio è abbondante e può diminuire di prezzo, mentre nel frattempo, secondo il “Guardian”, non sono pochi i soggetti che si stanno preparando a un lungo periodo di barili scambiati a 20 dollari l’uno.”